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Alessandra Pigliaru, per il manifesto, su Chloé Delaume

  • Immagine del redattore: Costanza Ciminelli
    Costanza Ciminelli
  • 6 mag
  • Tempo di lettura: 1 min

Aggiornamento: 6 giu


Poche, ma nitide certezze: l'infanzia è una malattia intessuta di traumi, e per guarirne non basta una vita. Ma un amore, forse, sì. Meglio se ossessivo, perverso e impossibile.


La protagonista, la scrittrice parigina Clotilde Mélisse affronta solo a cinquant'anni il caos generato dai molti "Io" che (ancora) la abitano: la bambina avida lettrice di "maudits" e testimone dell'omicidio-suicidio commesso dal padre uxoricida, orfana indesiderata presso la zia, e poi giovane donna con raptus suicidari, fino alla diagnosi di bipolarismo. E ancora, prostituta "volontaria", interessata a investigare i meccanismi di consumo del corpo femminile, e poi scrittrice affermata e poliedrica, fino all'incontro fatale con “il Mostro”, Guillaume Richter, regista per professione e per indole.


Con una scrittura "rapinosa e piena di vertigini", "lazzi linguistici perigliosi", e attraversando generi diversi "con disinvoltura a tratti spaventosa", tra Boris Vian e Antonin Artaud, l'alter ego di Chloé Delaume realizza una nuova, straordinaria performance artistica capace di piegare l'autofiction alle necessità, politiche ed estetiche, di un'analisi sociologica, di una ricerca linguistica, di un'autoterapia.


Personalità letteraria e artistica unica, Delaume è stata indagata con acribia scientifica da Marika Piva, che le ha dedicato una densa monografia che aprirà ulteriori cantieri di traduzione, complessi e necessari, oltre a quello più recente, ottimo, di Sofia Tincani per Mincione Edizioni.


Recensione (pdf):


Maggiori informazioni sul testo e sull'autrice:



 
 
 

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